L’ansia: una paura senza nome

La paura è una delle emozioni che più di frequente si incontra all’interno della stanza terapeutica. Molti pazienti giungono nel mio studio con questo forte senso di ansia che si esprime attraverso tutta una serie di paure, fobie, fissazioni e malesseri confusi e generici.

Ciò che spesso risulta evidente quando si parla con una persona ansiosa è che lo stato relazionale familiare è caratterizzato da un componente particolarmente aggressiva o violenta. Quasi sempre c’è, alle spalle, un genitore ansioso che, involontariamente,  trasmette quest’ansia.

Ci troviamo di fronte a bambini, il più delle volte diventati ormai adulti, che hanno subito trattamenti duri o forti punizioni nel corso dell’infanzia.

La paura provata nei confronti di un adulto violento o indifferente, il più delle volte, subisce dei risvolti automatici come, per esempio,la trasformazione in odio prima e in rabbia poi. Quest’odio solitamente è diretto verso colui che perpetra la violenza o che, comunque, conduce il bambino ad uno stato di frustrazione costante. In tal modo paura e rabbia divengono due confini emotivi dello stesso vissuto che si ostinano a viaggiare insieme. Chi prova rabbia in questi casi, solitamente, non è in grado di esprimerla, la reprime e incamera fino a scoppiare con sintomi strani e senza senso quali tremori, tachicardia, iperventilazione, continuo stato di allerta

La paura, per definizione, è “un’intesa emozione derivata dalla percezione di un pericolo, reale o supposto” 1. Essa compare già da molto piccoli quale stato naturale della crescita. Sin dai primi mesi di vita essa compare spontaneamente come forma di autoconservazione. Di fronte a tale esperienza il bambino risponde nel modo più comune, ovvero attraverso la fuga, forma di difesa estremamente naturale riconducibile anche al mondo animale. La fuga, però, non prescinde dalla comprensione dell’emozione stessa. Questo atteggiamento, infatti, è qualcosa di assolutamente spontaneo in quanto i bambini non sono in grado di riconoscere questa emozione e piuttosto che dire “ho paura” molto più probabilmente diranno “non voglio”, sfuggendo alla condizione disagevole.

L’incapacità di chiedere aiuto necessita accoglimento da parte dei genitori il cui compito sarà quello di riformulare il sentimento sconosciuto, rendendolo comprensibile al bambino. Il genitore, quindi, dovrà insegnare al bambino a sentire e pensare la sua paura.

Non è difficile, per un adulto attento o comunque un terapeuta, riconoscere lo spavento nel comportamento di un bambino. Solitamente il bambino impaurito è sempre allerta, tende a non giocare, difficilmente si avverte in lui uno stato di rilassamento. L’incapacità si esprimere questo sentimento non si rado porta alla comparsa di sintomi psicosomatici quali, per esempio, dolori all’addome.

Nonostante, dunque, sia pensiero abbastanza condiviso quello che il periodo dell’infanzia è molto sereno e privo di ansia in realtà il bambino non possiede ancora difese così strutturate che gli consentano di proteggersi dagli attacchi esterni. Questa condizione lo rende particolarmente vulnerabile.

Se da piccoli il proprio genitore, che è l’unica realtà che il bambino percepisce come propria, non è degno di fiducia ma, al contrario, diviene fonte di ansia e di sofferenza, tutto ciò che, con il tempo, prenderà il posto della famiglia automaticamente assumerà le stesse sembianze. Ci troveremo, quindi, di fronte, alle cosiddette profezie che si autoavverano con continue esperienze negative quali fallimenti ripetuti di storie d’amore, amicizie perse, incapacità di portare avanti esperienze lavorative…

Questa forma di coazione a ripetere che, il più delle volte, ci viene presentata in seduta va interrotta aiutando il paziente a divenire sempre più consapevole del messaggio che si dà di sè e della propria responsabilità associata ai fallimenti vissuti.

Un ultimo spazio va dedicato al vissuto di rabbia che, come già accennnato precedentemente, è fortemente associato a quello di paura. “Un bambino che da piccolo non poteva esprimere la sua rabbia e la mamma lo minacciava di uscire di casa, ha spostato la sua rabbia sulla paura che un autobus lo avrebbe ucciso se camminava in strade trafficate. Gli impulsi distruttivi di questo bambino erano stati spostati su un autobus a due piani che correva contro di lui. Doveva rientrare in contatto con la sua rabbia” 2.

Va notato che quando un bambino è costretto a reprimere la propria rabbia e la propria aggressività, in quanto pesantemente disapprovata dai genitori, vi può essere la manifestazione di un bambino che, per paura di perdere l’amore o l’approvazione genitoriale, diviene compiacente e buono; la rabbia ripudiata, però, continuerà ad esercitare una pressione nel piccolo.

In conclusione, all’interno della relazione terapeutica il nostro compito diviene quello di aiutare quel “bambino” a riconoscere le proprie paure; questi va convinto che parlare di esse con qualcuno non può che essere una buona idea; il paziente, infatti, deve imparare a concepire che nella richiesta d’aiuto vi è l’alleggerimento dello stato d’animo frustrato. L’adulto o, nel nostro caso più specificamente, il terapeuta dovrà sostenerlo nella rielaborazione della paura insegnandogli anche a dire, se necessario, di no. Tutto questo necessita della scoperta di un area in cui l’individuo è in grado di mantenere il controllo, dove possa sentirsi potente e senza paura.

Dott.ssa Erica Carbone
Psicologa Psicoterapeuta - Salerno


Psicologa Salerno

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